Il peso della messa in sicurezza delle attrezzature nel contesto lavorativo
- Febbraio 25, 2022
- Posted by: Gianantonio Posocco
- Categoria: Sicurezza
Era arrivato un po’ in sordina il D.Lgs. 626/94 (seguito poi dal 242/96), un recepimento di una serie di direttive sociali europee (prima la 89/391/CEE) che introducevano una serie di misure che il Datore di Lavoro doveva adottare, per rendere più sicuri e salutari gli ambienti produttivi.
Era “tanta roba”, a quel tempo, perché occorreva fare, tra l’altro, un’Analisi dei Rischi e poi nominare una serie di figure per costituire un fantomatico “Servizio di Prevenzione e Protezione”, fare formazione, etc. Nell’immaginario collettivo e non solo, il termine 626 cominciò presto a diventare sinonimo di sicurezza sul lavoro, con tutti gli annessi e connessi, talvolta visti solo come burocratici.
Ai tempi del D.Lgs 626 del 1994
Il passaggio epocale, dettato dalle Direttive Europee, era lo spostamento e l’accentramento delle responsabilità e dei controlli, prima in parte delegati ad organi regolatori (v. ENPI, poi ISPESL), in capo al Datore di Lavoro, che sarebbe diventato il custode di una serie di garanzie aggiuntive, rispetto ai dettami del CCNL, nei confronti dei suoi lavoratori e collaboratori.
Al tempo della “626”, complici una serie di buchi legislativi e normativi, molti si improvvisarono nel fornire alle imprese quei servizi di consulenza e di supporto necessari per arrivare alla compliance legislativa: s’erano scatenati commercialisti, associazioni di categoria, cani sciolti (in senso buono) ed altri “soggetti volenterosi” perché le scadenze incombevano e le richieste esplodevano.
Risme di carta trasformate in DVR da stampanti (nel migliore dei casi) o da fotocopiatrici (in tanti altri), che si dilungavano in analisi del numero dei bagni, delle docce; DPI che facevano sembrare che il terreno di guerra e i massacri fossero concentrati sui gradini sdrucciolevoli della scala uffici o sull’uscita di emergenza ingombra.
La sicurezza delle attrezzature di lavoro
Un aspetto importante, complice anche la mancanza di professionalità specifica, era quello riguardante gli impianti e le attrezzature di lavoro. A ben vedere, gli infortuni più gravi, fatti salvi i ponteggi in edilizia (comunque “attrezzature”), erano (e lo sono tuttora) per la maggior parte legati alla sicurezza delle macchine. Tra le misure generali, la “626” (Art. 3 punto r), riportava “regolare manutenzione di ambienti, attrezzature, macchine ed impianti, con particolare riguardo ai dispositivi di sicurezza in conformità alla indicazione dei fabbricanti”.
A quel tempo il seppur ottimo DPR 547/55 (allargato dal DPR 302/56) stava per andare in soffitta, ma ancora resisteva, finché non è arrivato il seguito della “626”, il D.Lgs. 81/2008, che ne ha assorbito i contenuti, quanto alla prevenzione legata all’uso di attrezzature.
Sono seguiti anni di dubbi, incertezze interpretative, circolari, interrogazioni e tutta una serie di aggiustamenti, per arrivare a dirimere le nebbie (in parte anche opportunamente sfruttate, da chi non intendeva investire) che avvolgevano queste tematiche. Per molto tempo, ancora oggi a dire il vero, non è ben chiaro, neppure a certi “addetti ai lavori”, quale debba essere il corretto approccio nel valutare la sicurezza del parco macchine.
Un po’ di confusione…
Le modalità stesse di recepimento dei requisiti dell’allegato V, quel pezzo di D.Lgs. 81/2008 che riguarda nello specifico la sicurezza delle attrezzature di lavoro, sono piuttosto variopinte, mancando di fatto linee guida condivise normate (diverse ASL ne hanno emesse in proprio, per colmare e dare un supporto) per come debbano essere applicate.
Discutendo talvolta con colleghi degli SPISAL, trovo conferma di quanto anch’essi si trovino in difficoltà nel valutare ciò che trovano in azienda a riguardo. Chi compila un foglietto, chi si affida a modelli trovati in rete, chi utilizza SW ed abbatte alberi interi per stampare liste vuote…
I tecnici che da tempo si occupano di sicurezza dei macchinari (in ambito Direttive di prodotto e marcatura CE), nel vedere il “pateracchio” contenuto negli Artt. 70 e 71, pur riconoscendo il tentativo del legislatore di voler fornire un quadro e un approccio il più possibile “semplificati”, onde evitare slalom strategici da parte dei destinatari, di fronte alle check-list proposte provano una sorta di orticaria. Il tentativo di fondere insieme il DPR 547 e l’Allegato I della Direttiva Macchine e di estrarne qualcosa di finito ed esaustivo, sembra non essere proprio ben riuscito, un bersaglio mancato.
Le dense sabbie mobili, costituite da parchi macchine vetusti, ante ’95, già mescolate a dichiarazioni rese da allegri (o spregiudicati) mercanti di macchine usate (o, peggio, da poco avveduti curatori fallimentari) mettono a dura prova, talvolta, anche tecnici esperti.
Fortunatamente il tempo passa e tante macchine vanno in pensione, complice anche il vento di rinnovamento portato da Industria 4.0 ed altre forme di incentivazione, ma ancora un buon 20-30 % (stima mia) di macchine stagionate (che oggettivamente resistono anche per motivi legati alla produttività: il vecchio tornio per sgrossare ne è un esempio… la vecchia pressa a piegare pure, per non parlare della calandra impolverata, messa su un angolo, che poi ricompare improvvisamente) compongono l’attuale parco macchine.
Il lavoro dei tecnici per la messa in sicurezza delle macchine
Interventi di retrofitting, di revamping o anche solo di adeguamento nei sistemi di sicurezza, che possono riguardare sia macchine ante ’95 che di prima marcatura CE (lo “stato dell’arte” si evolve…) sono comunque parte dell’impegno che tanti imprenditori si trovano a dover affrontare e che coinvolge noi tecnici, che poi dobbiamo proporre soluzioni strategiche per mettere in sicurezza (possibilmente a costo vicino a 0) il parco esistente.
C’è da dire che gli approcci possono essere svariati, essendo legati molto al back-ground e all’esperienza di chi effettua la valutazione. Girando per le aziende, mi sono trovato talvolta di fronte ad interventi ove sono state adottate soluzioni cervellotiche per risolvere problemi semplici, così come soluzioni semplicistiche per problemi complessi. D’altronde, per esperienza, non sempre il processo di messa in sicurezza è frutto di un ragionamento sistematico o lineare. Ci vuole anche il colpo di c… (francesismo, per non passare per “genio”) o un’intuizione “artistica” per risolvere determinati inghippi.
Per fare un esempio, una volta m’è stato chiesto di risolvere un problema di intasamenti continui su una linea di imbottigliamento spumante di una cantina. La linea era composta da uno spallettatore automatico di vuoti, seguito dalla giostra di riempimento e poi da un nastro che portava alla stazione di tappatura e gabbiettatura. In quest’ultima stazione, protetta con la classica cabina perimetrale, si verificavano spesso dei problemi, per cui l’operatore doveva arrestare l’impianto, aprire una porta (protezione mobile con interblocco) e rimuovere l’inceppamento (bottiglia), con conseguenti problemi sulla porzione di impianto a monte.
Notando che la zona pericolosa si trovava ad una certa distanza, rispetto all’operatore, e che la bottiglia da rimuovere si portava, ruotando, in posizione relativa più vicina, la soluzione è stata quella di adottare un tunnel in policarbonato di lunghezza calcolata, attraverso il quale l’operatore poteva inserire il braccio e prelevare la bottiglia difettosa, senza poter accedere alla zona pericolosa e senza fermare l’impianto. Costo intervento qualche centinaio di euro e problema risolto.
L’intervento di messa in sicurezza
L’imprenditore e Datore di Lavoro, spesso sensibile e responsabile, può talvolta trovarsi in difficoltà nel rispondere alle richieste del RSPP, che (giustamente) lo pressa per intervenire sul livello di sicurezza di determinate attrezzature. Anche l’adozione di sistemi di gestione normati (ISO 45001, ad es.) impongono di attivarsi in modo risolutivo alle problematiche presenti, pena l’ostatività nell’ottenimento o nel mantenimento dei certificati.
Per riassumere, l’intervento di messa in sicurezza dovrebbe essere affrontato in questa sequenza:
- studio dettagliato dell’interazione tra operatore e macchina, in tutte le fasi (attenzione al modo “automatico”) e con tutte le varianti (questo è uno step fondamentale, determinante per la buona riuscita dell’intervento), compreso il ruolo di un eventuale attrezzista o manutentore (attenzione alla qualifica e alla necessità di dover operare con protezioni ridotte);
- delimitazione delle zone pericolose e valutazione del rischio per i soggetti esposti (anche terzi visitatori?);
- scelta della soluzione migliore (economicamente più vantaggiosa e più efficace);
- intervento, affidato a personale / azienda qualificati;
- valutazione della buona riuscita, con prove sul campo;
- documentazione a corredo (integrazione manuale o istruzione di sicurezza);
- valutazione finale, secondo All. V, se richiesta.
Da tener presente che l’intervento di miglioramento sugli aspetti di sicurezza effettuato dal Datore di Lavoro non comporta la necessità di una nuova marcatura CE della macchina, se già ne è dotata.
Vistra, grazie al suo team di esperti e alla sua decennale esperienza, è in grado di offrire un approccio consulenziale in materia di sicurezza sul lavoro completo e aggiornato, facendo sì che il rispetto della norma venga percepito come un processo privo di problemi.
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Un saluto